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The Leftovers 2×10 – I Live Here NowTEMPO DI LETTURA 12 min

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I don’t understand what’s happening.
Me neither.

Sul finire degli anni ’90 e l’inizio dei 2000 l’HBO segnava la storia della tv con tre show in particolare, che ovviamente corrispondono al nome de I Soprano, The Wire e Six Feet Under. E lo faceva quasi abbastanza sottotraccia, forse con la sola eccezione di Tony e famiglia, se non altro in confronto all’enorme seguito che i serial televisivi hanno oggi. Eppure il canale via cavo apriva una stagione fatta di raffinato quanto elevato sperimentalismo linguistico e narrativo, condito da una libertà espressiva mista a coraggiosa ambizione senza eguali all’epoca, dando il via a quello che Lost, con la sua messa in onda generalista (ABC), avrebbe poi consacrato al grande pubblico: in tv si può fare cinema. Certo, questo almeno formalmente; quello che ancora mancava era il lato economico, a cui proprio la creatura di J.J. Abrams avrebbe contribuito a dare un decisivo scossone, grazie al largo successo commerciale conquistato fin dal Pilot, arrivando dritto nelle case di tutto il mondo (e lanciando il neo-nato fandom di internet). Un secondo step, quindi, culminato ancora con l’HBO, negli anni cresciuta rispetto al “piccolo” canale pionieristico d’un tempo, e il suo Game Of Thrones, che ha spostato definitivamente l’attenzione di una generazione dal grande al piccolo schermo. Da qui alla deriva commerciale dello stesso prodotto televisivo, seguito da molti altri (The Big Bang Theory, The Walking Dead, per citare i maggiori), con conseguente abbassamento qualitativo, il passo è stato purtroppo breve.
In tutto questo, dove si colloca The Leftovers? Proprio alla fine di un tracciato, come diretta e massima evoluzione di un cammino glorioso iniziato dalla stessa rete cable; sintesi assoluta di questi quindici anni di crescita della televisione (statunitense in primis ovviamente) fatta di Jimmy McNulty, Don Draper e Walter White; inaugurazione, si spera, di una nuova pratica autoriale votata alla qualità, dalla configurazione che una volta sarebbe stata considerata “per pochi” ma che ora, grazie alle ampie possibilità di fruizione, sembra essere indirizzata ad un più ampio target spettatoriale. Pratica che proprio l’ultimo anno solare sembra aver proclamato a gran voce, con svariati show distintisi dall’ormai formata “massa”, in un circolo che appare senza fine.
Leftovers che, se vi foste persi le ultime notizie, è stato rinnovato, malgrado i bassi ascolti registrati per tutta la stagione, grazie in primis al grosso credito che l’emittente ha per Lindelof e poi, immaginiamo, per il rilevante passaparola “critico” che si è mosso perché ciò avvenisse, per una volta (magari succedesse al contrario), che non ha mai smesso di osannare (noi compresi) una stagione fin qui perfetta, come testimonia il positivo riscontro avuto nel finale in termini numerici. Una stagione che ha esaltato fino all’inverosimile chi ha avuto la fortuna di seguirla, e speriamo appassioni, in un secondo tempo, chi invece se l’è “persa” (quinta stagione di Breaking Bad 2.0?), nonché coloro che voteranno agli Emmy Awards, i quali ci auguriamo saranno più accorti di quelli più “trendy” dei Golden Globes. Intanto, non possiamo che esser lieti della notizia, perché per quanto si poteva pure chiuderla qui, visto quanto ci ha appagato, una terza stagione ci sembra quantomeno adeguata, e speriamo funzionale ad una degna (e magari indimenticabile) chiusura.

No answers came, no soothing words 
Just silence and frustration 
But in Jarden town the sun shone bright 
A miracle
The light of love poured down 
It’s a miracle

Dopo la lunga (scusate!) ma doverosa intro, veniamo più nello specifico all’episodio, ovvero a questo season finale che poteva essere “series” ma che così non è stato. Un season finale che si ricollega piuttosto chiaramente a quello della stagione scorsa, innanzitutto nella pura rappresentazione scenica. A raccordare gli eventi, l’inno di Jarden, che apre e chiude la giornata della celebrazione del Memorial Day, funestata dall’azione violenta dei sovversivi Guilty Remnant guidati da Meg, esattamente come accadeva in “The Prodigal Son Returns” alla cittadina di Mapleton. Parallelo che si fa chiarissimo se mettiamo a confronto proprio la sequenza del vagare di Kevin tra le strade messe a ferro e fuoco, oggi come allora. “I live here now” dice così uno sconvolto e rassegnato Theroux ad una Liv Tyler al culmine della sua fierezza, come recita il titolo, dopo aver assistito all’invasione della Sodoma e Gomorra, opportunamente mostrataci in “No Room At The Inn” in tutta la sua degenerazione, riversatasi nel Paradiso/Giardino dell’Eden corrotto dalla messa in scena perpetrata da Evangeline Murphy (che canta, non a caso, da solista il brano estratto dallo stesso inno di Jarden).
La storia si ripete, quindi; dovunque i Garvey vadano, incappano fatalisticamente nel medesimo scenario di follia, atto a “ricordargli” che nessun posto è sicuro, che non esistono miracle in questo mondo che è già “finito”. Un mondo “scosso” perfino dalle catastrofi naturali, come accadeva nelle sacre letture simulando drastiche punizioni divine, vedi i terremoti che hanno scandito periodicamente l’intera stagione, fin dalla sua enigmatica première, in una caterva di simbolismi biblici (ma “Internation Assassin“, in merito, ha già fatto storia), che non serve però cogliere o comprendere necessariamente. Il compito di imprimerlo nelle nostre menti è affidato principalmente alla forza della messa in scena, con un’abile ed elegante regia al limite del cinematografico, per l’appunto, costruendo una continua ed intrigante dialettica tra ragione e sentimento (vissuta tanto dai personaggi quanto dagli stessi spettatori) efficacemente riassunta dallo “You understand” di Evie in contrasto all'”I don’t understand” della madre, prima, e del padre poi (e di tutto il fandom del web, come vedremo in seguito).

Nobody disappeared from here on October 14th four years ago. But they did before. And after. 
We’re the 9,261. We are not spared

Lo “sfogo” silenzioso di Evie è anticipato dal breve, ma efficace, sermone del fratello Michael, che possiede non solo l’onere di suggerire (alla faccia di chi dice che in questo show non si spiega nulla) i retroscena della famiglia Murphy, motivando sia il cinismo insistente del padre John sia la stessa adesione della sorella alla setta, ma riassume, più che mai, l’argomento fondante dello show: l’attesa che ogni “leftover” prova verso qualcosa che non accadrà mai; il rifiuto, poi, di accettarlo, dato un evento tanto inspiegabile quanto emotivamente (e razionalmente) devastante. “Thank you for waiting” dice Kevin al cane, dopo esser tornato in vita, ma potrebbe dire la stessa cosa Mary a Matt Jamison o sempre Kevin a tutto il resto della sua famiglia, che lo attende in “casa” nell’ultima scena.
La forza dei personaggi, presi singolarmente, è dopotutto il fattore esclusivo dello show fin dalla sua iniziale messa in onda (sì, proprio come succedeva in quella serie sugli “sperduti”), eppure si è visto comunque evolversi in questa stagione. Dal collettivo si passa al personale, e viceversa, ma il risultato non cambia, il “vuoto” è sempre lì ad attenderli, espresso magistralmente da un cast a dir poco eccelso, tanto che ogni membro meriterebbe un Emmy, da Ann Dowd a Christopher Eccleston, da Liv Tyler a Carrie Coon, senza scordare le più “silenziose” ma altrettanto esemplari Regina King e Kevin Carroll.
Ognuno riesce nel suo compito di risultare al massimo credibile, perfino in uno show che fa dello “straniamento” dello spettatore la sua poetica basilare, con un Justin Theroux su tutti, semplicemente toccante e superlativo, che nella scena del “karaoke” racchiude tutta la complessità della sua interpretazione.

I’m not fucking doing this again”

Molti avranno storto il naso, o perlomeno saranno rimasti confusi, nel vedere Kevin ritornare al limbo/purgatorio di un paio d’episodi fa, magari giudicando la scelta un tantino ridondante, eppure, quei dieci minuti, nascondono ancora un’infinità di “perle” lindelofiane. Innanzitutto, da un punto di vista pragmatico, la sequenza ha la sua utilità narrativa, fungendo da pretesto per passare dall’attacco dei Guilty Remnant alla sua diretta conseguenza, senza dovercela mostrare (causa anche budget, presumiamo) in tempo reale. In secondo luogo, probabilmente la questione più dibattuta, vede un atto di estremo coraggio da parte dell’autore, che fa morire e tornare in vita il suo protagonista non una, ma ben due volte (in barba a J.K. Rowling, insomma), dimostrando che non serve affatto sbarazzarsi di personaggi importanti per far presa facilmente sul pubblico, se si ha dietro una precisa direzione artistica (sulla quale ci soffermeremo più avanti).
Il terzo punto, forse quello più divertente, vede la scena condirsi di un grottesco quasi comico, da quel “Motherf*cker!” ripetuto e urlato a squarciagola (e che, in quell’esatto momento, avremmo/abbiamo similmente voluto gridare anche noi) alla riproposizione del Va’ Pensiero, stavolta in un’accezione non più alta ma decisamente “grave” nella sua inaspettata ricorrenza, fino all’assurdo dialogo con il “Caronte” di questa dimensione, che presente l’altrettanto bizzarra sfida necessaria a tornare indietro questa volta (You pushed a little girl into a well. You don’t want to sing?). Non per ritornare sempre sui temi di lostiana memoria, ma appare fragoroso quanto l’intera sequenza grondi di meta-televisione, la quale poco più tardi esploderà, in maniera geniale per alcuni, forse insopportabilmente per altri, in quel “I don’t understand what’s happening” – “Me neither” con cui abbiamo deciso di aprire questa recensione.
Ancora il suggerimento sottinteso proveniente dallo stesso autore è quello di non “pensare” a cosa si sta vedendo, quanto lasciarsi semplicemente trasportare dalla potenza degli eventi messi in scena. “Where is my mind” dicevano i Pixies (a proposito, alla cover di Maxence Cyrin il merito di aver riportato lustro al fantastico pezzo che anni fa chiudeva il Fight Club di David Fincher, visto quanto lo stiamo incontrando di recente, vedi Mr. Robot ad esempio): la colonna sonora, al solito, accompagna efficacemente ciò che accade sullo schermo, spingendo esageratamente sul lato emozionale, coi leitmotiv di Max Richter che continuano a colpirci dritto al cuore, pur essendo ormai alla loro ventesima ripresa.

I killed you
Nope

Dopo che Kevin ritorna, dopo che lo vediamo attraversare Jarden in fiamme e incontrare i fautori di tanta devastazione, l’ultimo conto in sospeso è ovviamente quello con colui che per tutta la stagione apparentemente ha assunto le sembianze della sua nemesi. Eppure, nell’emozionante e atteso confronto finale con John Murphy non vi è traccia nè di odio nè tantomeno di rivalsa, ma solo di un’amara e perciò ironica “comprensione”, paradossalmente nell’incomprensione, appunto. Loro, opposti nelle intenzioni quanto nelle azioni, accomunati dall’essere capo-famiglia completamente allo sbaraglio: John si è macchiato di gesta deprecabili, con la ragione massima di tenere la sua famiglia salva e al sicuro, Kevin è stato invece tormentato per gran parte della sua vita proprio dalle quelle responsabilità coniugali e genitoriali; eppure poco importa se per tutta la loro conoscenza uno ha mentito all’altro sulla scomparsa di sua figlia, o se solo poche ore prima uno ha sparato a morte l’altro, alla fine si ritrovano uniti nel voler tornare solo dalle rispettive famiglie.
What if there’s nobody home?” chiede John, “Then you come over to my house” risponde semplicemente Kevin: la tensione tra i due e la sua invertita e incredibile risoluzione finale, dettano i tempi dell’episodio come, in un’ottica maggiore, ha fatto per la totalità di questo secondo capitolo dello show. “Family’s everything“, sussurra Meg a un Tommy, che finirà col prendere alla lettera tali parole, trovando lo scopo di vita a lungo agognato; stessa cosa dicasi per Regina King/Erika che scuote la propria figlia, credendo stia per farsi saltare in aria e rifiutandosi di fuggir via; la purezza, agli opposti, di Matt che ritrova “miracolosamente” Mary, dopo averci sempre creduto, malgrado il numero inumano di disgrazie capitategli, quasi a convincerlo del contrario; la cinica e disillusa Nora che, dopo aver perso per un istante il bambino, gli fa da scudo umano, nonostante l’orda che gli passa sulla sua schiena: tutti, insomma, accomunati dalla volontà di proteggere i propri cari, poiché unico appiglio rimasto in questo mondo che sembra giunto al suo termine, per i quali riescono a compiere imprese impossibili, come tornare dall’aldilà.

You’re home

Perché poi, alla fine, si ritorna sempre a Kevin Garvey, al Jack Shephard di Lindelof e al suo percorso personale. Come dicevamo qualche paragrafo fa, a “miracle” non esistono miracoli, eppure Kevin muore due volte ed è ancora in piedi, quasi dissanguato, ma vivo e, soprattutto, “lucido” come non mai. E il terremoto finisce così col raggiungere un significato ambivalente, se non opposto, quello della rinascita “dalle ceneri”. “Because I have a family. Because I love them” afferma Kevin, prima di cantare l’Howeward Bound di Simon and Garfunkel che appare tanto un riassunto della sua esistenza, la quale non può, adesso sì perché lo desidera davvero, che concludersi con l’essere a casa, “where my love lies waiting silently for me“.
La perfetta (non serve aggiungere altro) scena di chiusura, funziona tanto da finale della serie tutta, come detto preventivata ma poi non accaduta, in piena simmetria, ancora, con “Prodigal Son Returns” stavolta per contrasto: come ha rivelato lo stesso autore, l'”adozione” del cane da parte di Kevin e la decisione di andare via da quell’inferno nella passata stagione, che si rapporta alla fuga post-ritrovamento dello stesso in questa, col protagonista che deve decidere se seguirlo o tornare lì dentro a cercare la sua famiglia. Senza contare, che, in un’ulteriore lettura, suggestiva per alcuni quanto funesta per altri, Kevin potrebbe alla fine essere davvero morto (Lindelof, d’altronde, ci è un po’ fissato) e l'”happy ending” non sia null’altro che il suo “paradiso” e forse, senza il rinnovo, saremmo rimasti col dubbio, ma adesso tendiamo per un’esclusione assoluta. In fondo, niente sembra intaccare questo Lindelof in stato di grazia, probabilmente all’apice della sua carriera personale, in termini puramente artistici.
La collaborazione con Tom Perrotta, autore del romanzo che ha ispirato la prima stagione (ma che, per l’appunto, si fermava lì) avrà avuto pure i suoi frutti, ma non prescinde il nostro plauso per il suo straordinario lavoro di sceneggiatura. Ma, d’altro canto, tutte le componenti hanno “collaborato” per regalarci questa stagione capace di toccare le massime vette a qualsiasi livello possibile: The Leftovers è emozione, è arte, è cinema, ma soprattutto, è la più alta essenza della serialità televisiva fin ora raggiunta.

 

THUMBS UP THUMBS DOWN
  • Tutto
  • Ah sì: “It is with great enthusiasm that we welcome back Damon Lindelof and Tom Perrotta and the extraordinary talent behind The Leftovers for its third and final season” (dichiarazione di Michael Lombardo, direttore della programmazione dell’HBO)
  • Esatto, in coro: niente

 

In una lunga stagione televisiva che ci ha dato le eccezionalità televisive di Sense8, Mr. Robot e Marvel’s Daredevil è The Leftovers il miglior show dell’anno? Assolutamente sì. La terza e ultima stagione ci dirà se ricorderemo la serie come una delle più belle della storia del via cavo, o se dovremo limitarci a dargli la palma d’oro delle migliori dell’ultimo ventennio.

 

Ten Thirteen 2×09 0.86 milioni – 0.4 rating
I Live Here Now 2×10 0.99 milioni – 0.5 rating

 

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Un tempo recensore di successo e ora passato a miglior vita per scelte discutibili, eccesso di binge-watching ed una certa insubordinazione.

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